Il 16 luglio 1767 papa Clemente XIII canonizzò due fondatori di Ordini religiosi: Girolamo Emiliani, fondatore dei Padri Somaschi; Giuseppe Calasanzio, fondatore dei Chierici Regolari delle Scuole Pie, e due religiosi francescani: Giuseppe da Copertino e Serafino da Montegranaro. Non stonò, fra uomini dotati di eccezionali qualità, l’umile figura del frate cappuccino nato nel 1540 e che a 18 anni si era presentato al convento dei cappuccini di Tolentino mostrando al superiore un crocifisso e un rosario, dicendo: “Non ho altro, ma con questo spero di farmi santo”. Era arrivato lì su suggerimento di una giovane di Loro Piceno, nella cui casa stava facendo da manovale al fratello muratore. Passando davanti alla sua stanza, la sentì leggere la vita degli eremiti della Tebaide, vissuti tra digiuni e penitenze. “Povero me – disse alla giovane – come farò a salvarmi l’anima?” “Ti insegno io come dovrai fare – gli rispose Ludovica – va a Tolentino dai frati cappuccini”. Ringraziò e si presentò al convento che gli aprì subito la porta.
Una volta divenuto frate, fu mandato in vari conventi per aiutare in cucina. Nonostante tutta la buona volontà, non combinava che guai, tanto da meritare rimproveri e penitenze. Non sapendo che fare, una notte andò in chiesa, si inginocchiò davanti all’altare e promise di recitare un rosario per quanti l’avrebbero rimproverato. “La tua promessa mi è molto gradita – gli disse una voce che usciva dal tabernacolo – chiedimi qualsiasi cosa e ti sarà concessa”. La vita cambiò non perché imparò a fare il cuoco, ma perché, rifugiandosi in chiesa, trovava pace e rassegnazione.
Un bel giorno fu tolto dalla cucina e fu mandato ad Ascoli Piceno come questuante. Respirò. Ogni giorno partiva dal convento e girava per le “rue” cittadine stringendo in mano un crocifisso che offriva al bacio di chi gli apriva la porta. Pian piano la gente si affezionò al piccolo frate, soprattutto perché si sparse la voce che faceva miracoli. Guariva le piaghe suggerendo di curarle con una foglia di insalata; lo scorbuto passandovi sopra uno spicchio d’aglio; le piaghe poggiandovi un panno caldo; le lacerazioni appoggiandovi un rosario. Tutti capivano che erano espedienti per nascondere una santità, della quale a un certo punto si parlò chiaramente, tanto che era chiamato “il santo”.
Un giorno gli presentarono una bambina muta. “Il medico ha detto che non c’è rimedio – gli dissero i genitori – fra Serafino, aiutaci”. “Santina, santina – disse il fraticello alla bambina mentre le toccava la testa con la sua corona fatta di canna di finocchio e pezzi di zucca – attenta a non stancare la gente con le tue chiacchiere”. Tornati a casa la bambina prese un cucchiaio e lo batté sulla tavola dicendo: “Ramona”, il nome di una vicina. E da quel giorno “parlò così tanto che spesso ci stordiva” dissero i genitori.
Perfetto osservante della regola della povertà e totalmente conformato alla spiritualità penitenziale, contemplativa e apostolica dell’Ordine, fra Serafino trasformò la chiesa nella sua cella, perché abitualmente stava più in chiesa, soprattutto di notte, che in cella. E se qualcuno lo spiava e se ne accorgeva, fingeva di dormire rumorosamente. “O santino – rispondeva celiando a chi gli faceva notare l’irriverenza – io dormo più in chiesa che in refettorio”. Assetato di messe e di Eucaristia, avrebbe desiderato di essere posto di famiglia a Loreto o a Roma per poter servirne molte ogni giorno. Un mattino, mentre serviva messa nella chiesa del convento, al momento della comunione, chiese al sacerdote di dargli l’ostia che stava sul corporale. “Non c’è nulla; io non ce l’ho messa” rispose il sacerdote. “Santino, guardate bene; c’è, io la vedo”. C’era davvero: l’aveva portata un angelo proprio per lui.
La gente che l’ha conosciuto, lo ha presentato con tratti veristici, quasi fotografici. “Aveva barba e capelli sempre arruffati… li puzzava il fiato… la tonaca, piena di pezze, li calava sempre dalla parte sinistra et li si vedeva il cilicio… non voleva assolutamente che li si toccasse le spalle… amava grandemente li fiori et li putti (fanciulli)”. È un fatto che i bambini sono sempre stati privilegiati da questi santi così umani e umili. E saranno proprio “li putti” ad annunciare alla città di Ascoli la sua morte, avvenuta sul primo pomeriggio del 12 ottobre 1604. “È morto il santo! È morto il santo!” gridavano correndo per le vie della città.
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