Cappuccini Marche

  • SERVI DI DIO

    Fra Damiano da Cingoli

Piammartino è un grumo di case nel contado cingolano in cui il 6 maggio 1875 nacque Damiano Sfascia, figlio di un boscaiolo e di una casalinga impegnata a educare quattro figli e a zappare un orticello. Era una delle poche famiglie, se non l’unica, a non avere un palmo di terra.

Il boscaiolo, preoccupato per la situazione della famiglia, emigrò in Argentina con la speranza di mettere da parte un gruzzoletto e comprare una manciata di terra che confinava col suo orto. Visto che non era possibile, tornò a Pianmartino più povero di quando era partito. A casa trovò una sorpresa: il figlio Damiano voleva farsi frate e vi si preparava dormendo per terra con un mattone per cuscino. Ma era analfabeta. Rimediò il parroco don Raffaele Perugini che gli insegnò a leggere, scrivere e far di conto. E, visto che era sveglio, anche i primi rudimenti della grammatica latina. “Ora va’ pure in seminario” gli disse. E Damiano si presentò in convento “per diventare frate penitenziale e di preghiera”, cioè fratello laico. Il superiore sorrise e l’anno dopo, 1892, lo avviò al noviziato come chierico. Sei anni dopo fu ordinato sacerdote dall’arcivescovo di Fermo mons, Roberto Papini nella sua cappella privata.

Terminati gli studi di filosofia a Trieste e quelli di teologia a Fermo, dal 1900 al 1932, P. Damiano passò in quasi tutti i conventi delle Marche dopo aver fatto due richieste: una al padre provinciale e l’altra al padre guardiano. Al primo garantì di essere disponibile “per i conventi in cui nessuno vuole andare”; al secondo chiese di affidargli “i lavori più pesanti”.

Aveva chiesto di entrare in convento come “frate penitenziale” e cominciò subito: dormiva su due tavole nude; beveva acqua calda (che chiamava scherzosamente “acqua di pentole”), mangiava la minestra “condita” di cenere; rifiutava decisamente carne e vino. A chi gli fece notare che quello stile di vita era il modo migliore per rovinarsi la vita, rispose in latino: “Ego scio; ego scio; lo so, lo so”. Ma non mutava vita. Quello che per gli altri era assurdo, per lui era naturale: camminare scalzo; fermarsi a parlare con i contadini; inginocchiarsi sulla strada accanto a un bestemmiatore (era intransigente con i bestemmiatori e con chi non santificava la festa), togliere dalle spalle di una donna un peso eccessivo e caricarlo sulle sue. Un giorno sentì bestemmiare un contadino seduto su un carro. Lo aspettò in mezzo alla strada; e gli disse: “Non si offende così Dio; scendi, inginocchiati e chiedigli perdono”. L’uomo stava per reagire; ma scese, si inginocchiò vicino a lui, poi si alzò lentamente, sfinito, come se avesse vangato un ettaro di terra.

Fin da piccolo P. Damiano percepì l’esperienza della croce, dicendo a se stesso: Cristo soffre per causa mia. Pensiero che condivise con Fra Marcellino da Capradosso e Fra Giuseppe da Rapagnano quando visse con loro a Fermo. Ci fu chi sorrise, ma i più li guardarono con un’ammirazione che dura ancora e che non finisce di riferirsi a loro quando si parla del recupero “del vero spirito cappuccino”.

Rigido con sé stesso, era estremamente attento alle necessità degli altri, dentro e fuori convento. A Santa Vittoria in Matenano lastricò da solo, pietra dopo pietra, la scorciatoia che collega il convento con il paese per comodità della gente; aiutò i contadini a portare l’elettricità nelle case; a canalizzare le acque sorgive; procurò medicine ai malati e leccornie ai bambini. Nello stesso tempo insegnava una preghiera; educava alla bellezza della fede, alla purità del mistero cristiano; guariva le malattie suggerendo ai malati di bere un bicchiere d’acqua; insisteva sulla frequenza alla confessione, il suo chiodo fisso, persuaso com’era che l’anima è bella e santa perché amata da Dio. Qualsiasi anima; da quella della lavandaia a quella di Alberto del Fante, il massone convertito da P. Pio e suo primo biografo. Lo incontrò in treno mentre tornava a Fermo e ne divenne il confidente e il padre spirituale. Del Fante gli portò il dottor Giorgio Festa, il medico incaricato di esaminare le stimmate di P. Pio. Anche lui ne divenne un penitente assiduo e devoto.

“Se è morto da santo – ha scritto Egle Paoloni Caferri – è perché era sempre pronto a confessare e perché conosceva i mezzi per convincere a farlo. A Pasqua andava a trovare gli uomini nei campi, nelle bettole, impaziente di vederli riconciliati con Dio. Quando riconsegnava un orologio aggiustato e gli era chiesto il prezzo, rispondeva: ‘niente’, ma vatti a confessare”. Pochi, come P. Damiano, univano la passione per i diritti sacrosanti di Dio alla compassione per i doveri disattesi dagli uomini.

Devotissimo della Madonna, morì il 24 agosto 1936, a ridosso della festa dell’Assunzione. Nel 2002 fu aperto il Processo di Beatificazione che gli ha meritato il titolo di Servo di Dio.