Cappuccini Marche

  • SERVI DI DIO

    fra Serafino da Pietrarubbia

Per cinquant’anni la gente della Vallesina ha visto passare per le sue strade l’esile figura di un frate cappuccino che chiedeva l’elemosina e distribuiva pace e serenità. In convento lo chiamavano fra Serafino da Pietrarubbia; nelle campagne della valle era semplicemente “fra Serafì”. Veniva dal Montefeltro, terra aspra e palpitante di memorie lontane, dove nacque il 4 febbraio 1874, e dalle cui pietre rosse i genitori trassero il nome che gli diedero, Pietro, e lui trasse gli stimoli per educare il suo spirito a una vita austera e seriamente impegnata nel lavoro.

I genitori gliene trovarono subito uno adatto alla sua età mandandolo a garzone in una casa vicina, iniziando così un servizio che sarebbe durato per tutta la vita. Quando seppe che i cappuccini di Montefiore Conca cercavano un domestico corse subito, e per tre anni lavorò nelle tradizionali occupazioni dell’orto e della cucina. Nel convento vivevano giovani novizi che Pietro guardava con simpatia e che un giorno lo videro tra loro con lo stesso vestito, indossato il 9 maggio 1898. Novizio anche lui. E ottimo, se il Maestro scrisse: “È un ottimo giovane sotto tutti gli aspetti, e perciò adattissimo alla vita religiosa cappuccina; e tutto ciò lo confermo con giuramento”.

Dopo la professione religiosa fu destinato al convento di Jesi, che raggiunse a piedi e nel quale visse 54 anni. Una vita. Compito principale era andare alla questua in città e nelle campagne del contado; impegno che accettò volentieri perché, povero e umile, gli permetteva di trovarsi fra umili e poveri in un ambiente tipicamente francescano in cui si erano trovati confratelli che si erano sacrificati e santificati. Partiva di buonora e rientrava a sera inoltrata con la carità ricevuta dai contadini: grano, formaggio, uova che sparivano subito, consumato dai piccoli seminaristi che gli si affezionavano come ai nonni lasciati a casa.

Quando non andava alla questua restava in convento, dove divideva le ore tra lavoro e preghiera. Dal padre aveva imparato a riparare cocci casalinghi e conservava gelosamente un trapano “appartenuto – diceva – al nonno di mio bisnonno”. Si sedeva su una sedia e pazientemente ricuciva piatti, pignatte, scaldini con la perizia di un restauratore di opere d’arte. Tuttavia preferiva incatenare corone, coniugando, così, lavoro e preghiera. Lavorava anche nell’orto, dove coltivava sementi che poi, debitamente divise, portava nelle famiglie durante la questua, con grande soddisfazione delle massaie che si vedevano ripagato il piatto di grano dato al cercatore.

Altro ufficio che amava era quello di portinaio. Al primo squillo del campanello si avviava alla porta, apriva e accoglieva l’ospite con “Sia lodato Gesù Cristo” pronunciato con un sorriso così accattivante che invitava a ricambiare subito il saluto. Se si si trattava di bambini correva immediatamente a preparare una merendina e, piccolo com’era, si confondeva tra loro. Un giorno capitò una signora col figlioletto. “È fra Serafino, bacia la corona”. Il piccolo lo guardò, poi disse: “No, tu sei Gesù”. Per i fratini del seminario ebbe tenerezze materne. Raccomandava che fossero buoni e bravi; se li vedeva correre dietro al pallone diceva in dialetto: “Forza burdlein”.

Per uno strappò al cielo una bella grazia. Si chiamava Stefano e a quattro anni non aveva ancora fatto un passo. Il medico aveva soffocato ogni speranza dicendo che si trattava di poliomelite e non avrebbe camminato mai. Quando fra Serafino capitò in casa, la madre gli domandò: “fra Serafì, che sarà di mio figlio?” Il fraticello si concentrò un attimo in preghiera, poi rispose: “Stefano guarirà”. Guarì davvero e divenne campione regionale di salto in alto. Più tardi soffrì di un gran male di testa e i medici diagnosticarono un “male brutto”. Fra Serafino le seppe e mandò a dire: “Lasciatelo in casa; non lo portate all’ospedale. Bisogna pregare molto, ma guarirà”. E guarì.

Tuttavia quello che lo caratterizzava era un’incessante unione con Dio che gli traluceva negli occhi e lo inchiodava davanti al tabernacolo di giorno e di notte. Spesso i confratelli che si alzavano per la preghiera notturna lo trovavano inginocchiato davanti all’altare, immobile, rapito in estasi.