Siamo tutti sulla stessa barca, in mezzo ad un mare di pregiudizi che ci fanno perdere di vista che le donne, gli uomini e spesso i bambini dei quali si parla, sono esseri umani che sognano un Paese che è capace di donare loro speranza.
di Giuseppe Pacini
Nel messaggio per la 107ª Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, celebrata il 26 settembre 2021, papa Francesco affronta nuovamente il tema dei profughi, cercando di mettere al centro l’umanità di quelle persone che scappano dalla loro terra e rischiano di morire durante la traversata dell’oceano: «I nazionalismi chiusi e aggressivi (cf. Fratelli tutti, 11) e l’individualismo radicale (cf. ibid., 105) sgretolano o dividono il noi, tanto nel mondo quanto all’interno della Chiesa. E il prezzo più alto lo pagano coloro che più facilmente possono diventare gli altri: gli stranieri, i migranti, gli emarginati, che abitano le periferie esistenziali. In realtà, siamo tutti sulla stessa barca e siamo chiamati a impegnarci perché non ci siano più muri che ci separano, non ci siano più gli altri, ma solo un noi, grande come l’intera umanità».
Non possiamo trattare l’argomento come se fosse soltanto uno spunto per scrivere qualche titolo di giornale abbastanza commovente. Sono persone, donne, uomini e bambini che spesso non ce la fanno. Tutto questo è disumano. «I loro occhi ci chiedono di non girarci dall’altra parte, di non rinnegare l’umanità che ci accomuna, di fare nostre le loro storie e di non dimenticare i loro drammi» – ribadisce altrove il nostro pontefice – e abituarci alla notizia che in tanti perdono la vita significa non riuscire più a vedere in loro altro di diverso da una pagina di un quotidiano. Si parla di migliaia di bambini che hanno a malapena imparato a parlare, ma non a sufficienza per poter gridare tutto il loro dolore. La pandemia ci ha permesso di relazionarci con l’imprevisto, con qualcosa che non dipende soltanto da noi, e a livello mondiale ha avuto degli effetti incontrollabili. I prezzi di alcuni Paesi, anche quelli dell’Africa, hanno subito aumenti ingestibili e ciò che due anni fa costava il giusto, oggi è triplicato e molte famiglie non riescono più a permetterselo. Un quintale di grano in Etiopia costa adesso 87€, in un Paese dove lo stipendio medio è tra i 30€ ed i 50€ al mese. In Benin, diventa sempre più complesso affrontare le spese per la costruzione di un pozzo nel nord del Paese dove le temperature arrivano a toccare i 50°C e i torrenti sono prosciugati. Il dramma della guerra in Ucraina, ancora troppo recente per essere dimenticato, ci ricorda che l’imprevedibilità del mondo, la tirannia dei potenti non è sempre così lontana. Forse allora tornare a parlare di vite umane e non di numeri, cercare di far toccare i nostri cuori dalle terribili notizie che quotidianamente riempiono i telegiornali, e non solo come forma di propaganda politica, potrebbe aiutarci ad entrare nel profondo delle storie dei migranti, a comprendere i loro dolori e le loro motivazioni, ad aprirci ad un dialogo costruttivo che accolga e cerchi di focalizzarsi sul bene comune. Su quei barconi alcuni sono venuti alla luce, altri hanno chiuso gli occhi per sempre. Di questi uomini e di queste donne dobbiamo far memoria, senza fare distinzione né tra i porti di arrivo né tanto meno tra i Paesi di provenienza.
L’emergenza Ucraina sta coinvolgendo emotivamente tutto il mondo, tantissimi profughi sono arrivati nel nostro Paese e ad ognuno di loro è stata data accoglienza. Ci siamo prodigati per organizzare raccolte fondi e mettere a disposizione le nostre abitazioni, a livello locale si sta cercando di organizzare corsi di lingua e inserimenti scolastici per dare l’opportunità, a chi ha visto la propria scuola essere bombardata, di non perdere l’anno scolastico. Tutto ciò è stato fatto proprio perché abbiamo lasciato agire il nostro cuore, abbiamo e stiamo tuttora facendo la cosa più giusta che si possa fare, ovvero aiutare, sempre e comunque. Allora ci domandiamo: perché lo stesso atteggiamento a livello nazionale non riusciamo ad averlo con chi scappa da guerre, tanto crudeli quanto quest’ultima? Perché nelle storie di chi arriva ammassato in una barca via mare dobbiamo trovare sempre qualcosa che non sia “vero”, che giustifichi la nostra volontà di indifferenza? Perché siamo convinti che una mamma ucraina che arrivi in Italia non debba essere aiutata a “casa sua” ma qui, mentre una donna etiope con in braccio una figlia debba essere aiutata a “casa sua”? Crediamo davvero che la guerra nel Tigray, piuttosto che quella in Siria, piuttosto che tutte le altre sparse per il mondo, siano meno atroci e quindi più giustificabili? Crediamo che il cambiamento climatico colpisca soltanto i nostri raccolti o siamo a conoscenza che in Etiopia, a causa delle mancate precipitazioni di gennaio, non è stata fatta la semina e adesso rischiano di morire di fame? E siccome papa Francesco ci ricorda in un’altra occasione che «I migranti sono nostri fratelli e sorelle che cercano una vita migliore lontano dalla povertà, dalla fame, dallo sfruttamento e dall’ingiusta distribuzione delle risorse del pianeta, che equamente dovrebbero essere divise tra tutti », è giusto pensare che il sistema politico mondiale non stia affrontando nel modo migliore possibile il tema, ma è altrettanto doveroso non cadere nell’inganno che ci siano profughi di prima classe e profughi di seconda.
Questa riflessione non ha però l’intento di far passare il messaggio che la Chiesa, o meglio parte di essa, sia l’unica realtà nella quale si parli di accoglienza. L’indifferenza di fronte al dramma dei migranti, dei profughi e dei rifugiati, in questi anni ha visto tantissimi prodigarsi per lanciare un messaggio di solidarietà e di amicizia nei confronti di chi tenta di arrivare nella nostra parte del mondo. Il tema è di dominio pubblico, spesso divide più che unire, ma di certo, quando si mette al centro la vita di tutti gli esseri umani, non possiamo che generare un senso di fraternità umana che va oltre ogni schieramento politico, religioso e culturale. Nel 2018, durante il Festival di Sanremo, un giovane cantante, in arte Mirkoeilcane, portò una canzone che fece riflettere e commuovere tutti perché diede l’opportunità di approcciarsi al tema con gli occhi di un bambino che scappa dall’Africa con la sua mamma, con la speranza di rincontrare il padre che prima di loro aveva tentato di attraversare l’oceano e che non ce l’ha fatta; ma questo lui non lo sa. La canzone si intitola Stiamo tutti bene, una chiara provocazione riferita a tutte quelle volte che si è cercato di minimizzare il viaggio che porta ogni anno migliaia di persone in Europa. Il protagonista della canzone è Mario, un bambino di sette anni e mezzo che, invitato dalla mamma, lascia il suo Paese dove giocava a calcio sì, ma con i sassi. Un viaggio raffigurato come una vacanza in cui sembra che venga sbagliata rotta, dove le persone vengono buttate in mare e a Mario, troppo piccolo per capire, viene detto che “volevano nuotare”. C’è poi un uomo sulla barca “che sono tre giorni che dorme che pare non respiri” e a Mario, sempre troppo piccolo per capire cosa sia successo, la mamma dice che “era proprio stanco.”
“È il sesto giorno e adesso dorme pure mamma – dice ad un certo punto Mario – e un tipo magro qualche fila più in là grida che vede la Madonna e questa barca adesso puzza di benzina e di morte e mamma ha detto di non farci caso e di essere forte, di fare il bravo bambino e star seduto qua, che mamma adesso s’addormenta e raggiunge papà.”
Forse mettendoci nei panni di Mario, che ha visto morire sua madre, potremmo capire la paura e l’angoscia di un bambino di sette anni, “sette e mezzo per la precisione”, che urla al mondo: “C’è un silenzio tutto intorno che mi mette paura, s’è fatta notte, ho freddo e in cielo non c’è neanche la luna. La gente grida, chiede aiuto ma nessuno risponde, mi guardo intorno e neanche a dirlo vedo sempre e solo onde, dopo onde, ancora onde, e allora onde evitare di addormentarmi come gli altri ed esser buttato in mare, mi unisco al coro della barca e inizio a piangere e gridare, non ho forza, chiudo gli occhi e non so neanche nuotare.” Ma d’altronde, alcuni pensano che “stanno tutti bene”. •