Le iniziative di solidarietà, specie se internazionali, hanno bisogno di essere continuamente mantenute attraverso il coinvolgimento di nuovi amici. è sempre affascinante ascoltare le testimonianze di chi per la prima volta visita le nostre missioni, in questo caso in Etiopia.
di Cristiano Stopponi
Oggi andiamo in due villaggi a nord di Soddo. Per la prima volta da quando sono qui vedo alcuni cavalli; non perché non sia un animale utilizzato, ma la sua presenza va a zone. Sembra poco, ma rispetto all’asino, che comunque è una benedizione per chi ce l’ha, permette spostamenti di più persone contemporaneamente e velocemente, oltre ad avere più potenza di traino. Per strada troviamo un pozzo, circondato dai bambini che fanno la fila, o più precisamente che si ammassano per poter riempire le classiche taniche gialle con cui trasportano l’acqua. L’acqua è presente nel territorio etiope, ma la sua gestione risente dei soliti problemi della zona e del momento. Innanzitutto bisogna scavare, e non sempre la falda è ad una profondità facilmente raggiungibile, senza contare che l’alta inflazione fa sì che l’attrezzatura per realizzare la struttura aumenti di prezzo costantemente; in secondo luogo le grandi distanze presenti nel Paese, o tra i villaggi stessi, rendono difficoltoso l’approvvigionamento da parte delle famiglie, con dispendio di energie da parte di alcuni membri, solitamente ragazzi, per poter andare tutti i giorni al pozzo a piedi (nei casi più fortunati con l’asino). E chiaramente, in alcuni casi la scelta è obbligata: o si va al pozzo o si fanno altre attività, tra cui lo studio. Per questo il problema non è sempre fare o fare a sufficienza, ma in alcuni casi, come per l’istruzione, fare abbastanza vicino da poter essere sfruttato.

Nel caso del villaggio di Lera, dopo aver effettuato il censimento dei ragazzi e la consegna del dovuto, visitiamo l’asilo qui costruito con dei fondi raccolti appositamente. Il complesso è stato realizzato tre o quattro anni fa, è molto semplice, ma anche molto ben tenuto, ed è formato dalla classica struttura a un piano con veranda: davanti, e tutto intorno, l’erba è ben tagliata, segno che il posto è accuratamente tenuto e che la comunità se ne prende cura. Questo è un aspetto importante perché, come per tutte le donazioni effettuate quaggiù, il problema principale non è solamente l’investimento iniziale, quanto assicurarsi che esso duri nel tempo e che, per problemi vari tra cui quello non trascurabile della manutenzione, non venga abbandonato a sé stesso.
C’è un po’ di fermento, i bambini sono emozionati, stanno arrivando gli ospiti che vengono da lontano e le maestre li avranno probabilmente preparati da qualche giorno. Ci facciamo vivi, quasi timidamente; è la prima volta che vengo a visitare un asilo etiope e l’importanza che ci danno sembra anche eccessiva, ma per loro è una festa: allora perché rovinarla? L’asilo è composto da diverse stanze abbastanza spaziose e ognuna con un numero di bambini che qui sembra comunque adeguato, ma che in Italia avrebbe fatto gridare al sovraffollamento. Al di fuori di ogni aula ciabatte di ogni tipo, colore e numerazione, giacciono sparse sulla soglia e dintorni; i bambini all’interno non le indossano, probabilmente per contribuire alla maggior pulizia del locale, più probabilmente ancora perché così stanno più comodi e indossarle all’interno non sarebbe affatto utile.

Dentro troviamo un’aula con tutto ciò che è essenziale per fare una buona scuola dell’infanzia: banchi di legno uniti tra loro, che ho visto al massimo nel film Cuore, ripiani vari su cui i bambini possono appoggiare il loro (poco) materiale scolastico o, più realisticamente, il (sempre poco) materiale scolastico della scuola, una lavagna con su scritta qualche parola in inglese, poster sulle pareti con l’alfabeto amarico e i mesi dell’anno, e almeno una trentina di bambini sorridenti, ognuno al proprio posto in alcune aule o in simpatico disordine in altre, probabilmente a seconda della disciplina decisa dalle varie insegnanti, comunque sorridenti anche loro. Tutti, indistintamente, intonanti la canzoncina imparata per l’occasione particolare, e che ci verrà cantata diverse volte ad alta voce, con tonalità raggiungibili solamente da bambini felici di quello che stanno facendo e che sentono importante: “Good mooorning, good moooorning, welcome welcome welcome! We are happy to see you, we are happy to see you!”, con conseguente balletto e ondeggiamento fianchi. Molti di loro li avevamo visti precedentemente, al momento della distribuzione dei due quaderni e di una penna bic ciascuno – materiale utilissimo per il contesto che abbiamo visto – e delle buste con il sostegno a distanza, particolarmente utili per i contesti che invece non abbiamo visto.

Proviamo a fare qualche domanda ai bambini, ma comunicare è sempre difficile. I bambini non parlano inglese, o meglio, conoscono solo qualche parola di base, che poi è lo stesso livello con cui noi conosciamo l’amarico, la loro lingua o perlomeno la lingua ufficiale dell’Etiopia; a causa infatti della vastità del Paese convivono diverse etnie, ognuna con il proprio linguaggio, e una parola che possa essere capita e studiata (per chi può farlo) dal nord al sud del Paese è un importante fattore di unità. Tra l’altro, non è una delle lingue più semplici del mondo, con i suoi 260 segni sillabici; per fortuna le maestre ci vengono incontro ed in qualche maniera riusciamo a parlare. Chiedo ai bimbi se studiano, perché studiare è importante; sono contento che studiano l’inglese perché permetterà loro di mettersi in contatto con il mondo. Poi sto per aggiungere che, se si impegnano, potranno diventare come noi, ma lo sguardo dei bambini e probabilmente la parte del cervello deputata al filtraggio delle cose sbagliate bloccano la frase, e in un certo senso realizzo.
Quanta supponenza nel dover credere che loro debbano diventare come noi, come se fossimo l’unico modello di sviluppo realizzabile e addirittura desiderabile. Abbiamo portato i nostri figli a poter vivere cento anni ed oltre, ma non li facciamo più; abbiamo tecnologie che ci fanno comunicare fino all’altro capo del mondo istantaneamente, ma non sappiamo come si chiama il nostro vicino di casa; abbiamo accesso a conoscenza infinita, ma non sappiamo più distinguere il vero dal falso; abbiamo ricchezze che utilizziamo per poter produrre altre ricchezze che nel frattempo non abbiamo più modo di utilizzare. In economia esiste il concetto di “utilità marginale”, ovvero la capacità che ha l’ultima unità di un bene o di un’azione di aumentare o diminuire la felicità complessiva (per dirla con le parole dell’economista Jeremy Bentham). Ecco, forse siamo arrivati a un livello di felicità tale che il solo sforzo di averne un poco di più ci crea enormi difficoltà, spesso con risultati grotteschi o addirittura controproducenti, con la nascita di problemi sociali a volte inesistenti e con il turbinio della giostra quotidiana che sembra non concedere scampo.

Magari la società di questi bambini che ci stanno guardando, curiosi di questa gente strana dalle lingue incomprensibili e da un colore della pelle diverso dalla loro, ha una sua personale giostra che noi non conosciamo e che possiamo solo immaginare, credendo che sia di fatto uguale alla nostra, ma solo che giri un po’ più lenta, con noi che dobbiamo insegnare come accelerare. Perché noi sì, che la padroneggiamo, e pazienza se la forza centrifuga ogni tanto lancia fuori qualcuno. Ma se la giostra è veramente diversa, cosa abbiamo noi da insegnare su qualcosa che spesso non riusciamo a comprendere fino in fondo, lanciandoci in paragoni anziché in confronti per poter imitare cosa c’è di meglio? E mentre i bambini della classe, che trotterellano sereni sulle loro personali equazioni di felicità, si stringono intorno e sorridono in attesa che io dica qualcosa e la maestra mi fissa chiedendosi che diavolo starà immaginando questo che sta bloccando la lezione e non parla (scena già vista per cinque anni delle mie elementari), penso ad una domanda più idiota di quella che stavo per fare, ma non mi viene. Su tale aspetto un pronto aiuto viene, per fortuna, da altri che sono insieme a me e che chiedono a che ora facciamo pranzo, domanda fortunatamente incompresa anche dall’insegnante e che permette di salvaguardare un po’ la dignità del momento.
È ora di ripartire: i bambini ci salutano tutti insieme fuori dalla loro classe nella loro armonica cacofonia di vestiti di ogni tipo e di voci, come tutti i bambini del mondo che, quando urlano tutti insieme, sembra che dicano le stesse cose. Domani ci aspettano i villaggi di Mokonissa e Boditta, e fra poco almeno un’ora di strada sterrata. •