Senza ira e turbamento
Fra Pietro Maranesi
Il capitolo VII è da considerare uno sviluppo del precedente. Mentre in quello le relazioni fraterne fondate sulla maternità erano poste in relazione alla scelta della povertà materiale, qui invece esse sono connesse con un aspetto della vita tanto importante quanto difficile: il perdono tra i frati. La formulazione che era stata data alla stessa questione, al capitolo V della prima Regola, comprendeva due parti: la prima, relativa al procedimento evangelico su come affrontare il peccato all’interno della fraternità (Rnb V, 1-6), la seconda, più ampia e sicuramente più importante della precedente, dedicata allo spirito con cui applicare quanto stabilito (Rnb V, 7-17). La richiesta fatta ai frati responsabili in merito a questo ultimo aspetto contiene un doppio versante: «Si guardino dal turbarsi e dall’adirarsi per il peccato di un altro», ma «spiritualmente aiutino chi ha peccato», animati in ciò dalla consapevolezza che «non i sani hanno bisogno del medico, ma i malati» (Rnb V, 8). In ogni caso, tutti i frati, più che di applicare con fedeltà il procedimento penale, debbono preoccuparsi di evitare un rischio grave: «Non abbiano in questo alcun potere e dominio fra di loro» (Rnb V, 9).
Nella riscrittura del testo, il capitolo VII della Regola, oltre a riproporre le due parti, riducendole però a soli tre versetti, effettua alcuni importanti cambiamenti. Nella prima si elimina la formulazione del procedimento penale per sostituirlo con uno più canonico e oggettivo (Rb VII, 1-2); nella seconda, ridotta ad un versetto (Rb VII, 3), è riproposto invece il nucleo tematico spirituale della prima Regola. Anche in questo caso, infatti, l’esortazione è rivolta non ai frati “peccatori”, ma a quelli “bravi” che debbono gestire l’ammonimento, mettendoli in guardia dello stesso pericolo già richiamato nella formulazione precedente: «E devono guardarsi dall’adirarsi e turbarsi per il peccato di qualcuno» (Rb VII, 3). Ritorna dunque il medesimo appello, ma la motivazione addotta è un’altra. Nella precedente si offriva questo motivo: «Perché il diavolo per la trasgressione di uno vuole corrompere molti» (Rnb V, 7). Nella riscrittura, invece, l’argomentazione è: «Perché l’ira e il turbamento impediscono la carità in sé e negli altri» (Rb VII, 3). Un cuore indurito, infatti, non solo non avrebbe la possibilità di chinarsi con attenzione sulle ferite del fratello, ma sarebbe pure privo dell’unico olio che le possa guarire, cioè la carità. Per Francesco, il ministro non era chiamato tanto a far rispettare “la legge”, quanto ad amare il fratello in difficoltà, così da incontrarlo non guidato soltanto dal diritto canonico ma da un cuore compassionevole. Perché anche noi lo sappiamo: unicamente questo spirito può dare valore ed efficacia alla misura disciplinare, evitando così di ridurlo a semplice applicazione della legge. Infatti, la legge senza la carità non ha mai salvato nessuno!
Tratto dal mensile di Frate Indovino (supplemento Voce Serafica Assisi) – fasc. 08-2023